Archivio mensile:luglio 2012

SUCCO DI PRUGNOLE

L’ ho preparato con il Bimby (TM31), prezioso alleato in cucina, insuperabile per preparare i succhi di frutta, veloci e sani.

Sono sempre le prugnole della prima spedizione e le dosi per circa 6/7 bottigliette sono queste:

  • acqua 800 gr
  • zucchero 100 gr
  • frutta 300 gr se lo si vuole più leggero, ma io ne metto 400 gr.
  • limone 60 gr. (circa uno)

Mettere nel boccale l’acqua e lo zucchero – 10 min. 100° vel 2 –

Poi aggiungere il succo di limone e la frutta tagliata a pezzetti, privata del nocciolo ma non della buccia, perchè contiene molte vitamine che andrebbero perse togliendola.

Impostare 1 minuto, vel. da 2 a vel 10, gradatamente fino ad omogeneizzare il tutto.

Togliere dal boccale e versare il succo nelle bottigliette, piccole o grandi a scelta.

Io uso quelle monoporzioni (abbondanti) che, gentilmente, una mia amica proprietaria di un bar mi mette da parte, le lavo, le sterilizzo e poi le riempio, le metto in una capace pentola ricoperta di acqua e dall’ebollizione calcolo 20/25 minuti.

Le lascio raffreddare, le etichetto sul tappo con la sigla del frutto ( PS pesche, PR prugne, PE pere, A albicocche ecc.) , hanno un buonissimo gusto non troppo dolce nè asprigno e fanno molto bene.

Metto le mie bottigliette  nella dispensa delle conserve pronte per questo inverno, quando davanti al suo grigio e alla sua nebbia ci daranno un tocco di colore.

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LE PRUGNOLE DEL MACERO

Oggi siamo andati al macero di Fiorino (quello dei pesci gatto) ed abbiamo trovato degli alberelli pieni pieni di questi deliziosi frutti, azzurro/violaceo, a grappolo addirittura.

Sono “ LE PRUGNOLE” un “frutto dimenticato”.

“ per frutti dimenticati si intendono quelli che un tempo erano invece importantissimi sia perché fornivano sostentamento in periodi di carestia alimentare, sia perché venivano utilizzati in medicina per curarsi ed alleviare i malanni. “Tutti gli alberi ed arbusti che i nostri contadini piantavano in prossimità delle case coloniche avevano prima di tutto una funzione pratica: ogni pianta non veniva messa a dimora casualmente, ma per fornire cibo o cure, oppure alimenti e riparo al bestiame, o per mitigare gli eccessi del clima. La funzione estetica era solamente un aspetto secondario.” ricorda Luciano Pallotti, sulla rivista “Romagna, ieri,oggi e domani”.

“Frutto piccolo, poco commerciabile, deperibile, dal sapore particolare”

questi sono gli aspetti negativi che fanno sì che questi frutti siano rimasti ai margini del mercato, sebbene ricchi di sapore e prodotti da piante robustissime, resistenti alle malattie. Le piante sono state abbandonate ed ora rischiano l’estinzione. Con loro si perderanno migliaia di “fole”(favole), detti, indovinelli o soltanto modi di dire, che i nonni tramandavano ai più piccini, raccontandoli davanti al focolare o durante le veglie nella stalla. Queste piante rappresentavano durante tutto l’arco dell’anno una continuità alimentare. Una tradizione legata al modo di raccogliere la frutta descrive così la sua ritualità: “Il contadino lasciava almeno tre frutti sulla pianta, uno per il sole, uno per la terra e infine uno per la pianta che aveva lavorato duramente e si meritava un premio”. Nei lunghi inverni del passato, le popolazioni contadine hanno ingannato la fame cibandosi di frutti che venivano essiccati e conservati nel “fruttaio” perché maturassero. Quelli che non si prestavano al consumo immediato, venivano cotti per ottenere ottime marmellate, gelatine e salse o impiegati per la preparazione di bevande leggermente alcoliche. Negli ultimi anni molti Comuni, Associazioni e Enti, con la collaborazione di alcuni agricoltori organizzano iniziative, mostre e sagre paesane che mantengono in vita la coltivazione di questi frutti e le tradizioni ad essi collegate.

( tratto da – Manuale sui frutti dimenticati di Katia Agide – 2007)

Abbiamo potuto raccoglierne quante ne volevamo e così abbiamo fatto.

Poi si è posto il problema di come usarle, come? Ma a confettura, sciroppate, nel liquore, in preparazioni dolci/salate, negli gnocchi friulani, addirittura ho trovato una ricetta per fare un sugo per la pasta, ma sinceramente l’ho scartata. E poi cercherò di inventarmi qualche cosa.

Man mano presenterò le varie preparazioni. Ora partiamo dalla più semplice:

LE PRUGNOLE SCIROPPATE

  • Tante prugnole quanto ne bastano per riempire un vaso da 1 kg,
  • Due cucchiai di zucchero

Mettere le prugnole nei vasi, unire lo zucchero (io ho usato per un vaso quello alla cannella e per un altro quello alla vaniglia, preparati da me), batterli per uniformare tutto e farli sterilizzare per circa 25 min. Lasciarli raffreddare nella pentola, ma se occorresse questa per altri vasi, si possono togliere e coprirli con un panno.

Non ho preparato prima lo sciroppo perché preferisco che si formi da solo, senza aggiungere acqua, durante la bollitura dei vasi.

ed eccole qui, pronte per essere gustate questo inverno e per farci ricordare l’estate.

I PESCI GATTO

Come avevo accennato nel post – uova e fagioli, oggi vi presento i pesci gatto pescati da Fiorino nel suo macero.

Intanto cos’è un macero:

I maceri sono degli invasi di acqua artificiali, elementi caratteristici del paesaggio rurale della pianura emiliana, bolognese e ferrarese in particolare, che hanno avuto una grandissima importanza nella storia della coltivazione della canapa per secoli e fino alla metà del 1900; e ancora oggi, se ben conservati, possono svolgere una funzione di riequilibrio ecologico , favorendo la conservazione di habitat naturali e di specie di flora e fauna selvatica tipici e originari della nostra pianura e delle zone umide.

La canapa fu introdotta in Romagna a partire dal XV secolo dagli agronomi della Repubblica di Venezia che ritenevano la sua fibra di grande valore perché particolarmente adatta per la fabbricazione di cordami e vele per le imbarcazioni.

In Italia la coltivazione della canapa ottenne un notevole incremento attorno al 1500, quando cominciò a sostituire gradatamente il lino, in crisi per condizioni climatiche sempre più avverse. Da allora questa coltura continuò nelle nostre terre ininterrottamente e raggiunse la massima diffusione durante il XIX secolo, per poi iniziare una rapida riduzione a partire dal 1920 a causa della espansione di altre coltivazioni più redditizie come la barbabietola da zucchero e la frutticoltura, la scoperta di fibre alternative e con l’importazione del prodotto grezzo da paesi dove la manodopera costava meno, fino a cessare definitivamente nell’immediato secondo dopoguerra.

La canapa, tagliata e raccolta in fasci, doveva in seguito subire una fase di macerazione attraverso la immersione in acqua.
Per questa operazione erano necessari i maceri ( i mesar),

La macerazione era necessaria per neutralizzare l’azione delle sostanze collanti, clorofilla e pectina, che trattenevano la fibra tessile attorno allo stelo legnoso, detto canapulo.

Nei primi giorni il macero si popolava di anfibi: rane, rospi e raganelle, che però fuggivano appena le sostanze della canapa iniziavano a sciogliersi rendendo l’acqua troppo inquinata.
L’immersione durava all’incirca 8 giorni. Nel giorno designato per estrarre la canapa (cavè la camna) si iniziavano le operazioni alle prime luci dell’alba, l’addetto (e cavador) si immergeva a piedi nudi ed iniziava ad afferrare e sciogliere i fasci ed a sbattere i mannelli nell’acqua per ripulirli dal viscidume. I fasci erano poi messi ad asciugare nei campi di stoppie ed appena asciutti erano trasportati nell’aia per essere successivamente sottoposti alla scavezzatura (la macadura) per separare la fibra , a cui seguiva la gramolatura (la gramladura) per raffinare e rendere più lucente e setosa la canapa, finalmente pronta per la commercializzazione.
Le sezioni frantumate dei canapuli (i canarel) erano raccolte ed accatastate perché preziose per accendere il fuoco nel camino (l’arola). Molte famiglie trasformavano i canarel in rudimentali fiammiferi (i suifanel) immergendoli per alcuni centimetri in un bidoncino di zolfo fuso.

Nel loro piccolo questi specchi d’acqua hanno un loro ecosistema, sia al loro interno che all’esterno, infatti può capitare più volte di vedere alzare un airone cenerino o un passaggio del martin pescatore con i suoi inconfondibili colori.

Ma dentro al macero ci sono anche delle carpe e dei pesci gatto.

E sono proprio questi ultimi che Fiorino ha pescato e poi ce li ha preparati, come sempre appetitosi e naturalmente gustati a tempo di record. Insieme ha cotto anche delle zucchine a fiammifero, alla vecchia maniera e portati in tavola, pesci e verdure, nella cassetta con la carta gialla “da macellaio” di una volta.

Ed ecco FIORINO, orgoglioso nel presentarci i suoi pesci gatto.

ECCOMI……

 

Finalmente dopo DUE settimane DUE in cura dal tecnico, il mio computer è tornato a casa.

Sinceramente ero un po’ in crisi di astinenza, più che altro per questo mio blogghino, mi sono detta – chissà le mie fans (piano…piano…non spingete..) cosa penseranno -. Invece eccomi ancora qui, con tanti articoli che, nel frattempo, ho preparato.

A presto, anzi a subito. ciao a tutti

(immagine dal Web)

PARMIGIANO SUI MELONI

IL MELONE – (Cucumis melo)

E’ di probabili origini africane o, a seconda di altri, dell’antica Persia, nel secolo V a.C. ,ma furono gli Egizi che lo esportarono nel Mediterraneo.

CURIOSITA’

A. Dumas apprezzava molto i meloni della città di Cavillon (Francia) e fece richiesta alla biblioteca della città per uno scambio tra le sue opere e una rendita vitalizia di 12 meloni l’anno, e così avvenne fino alla sua morte.

“MELONE”  fu anche il nome della lista civica triestina  (Lista per Trieste) che negli anni settanta si oppose fortemente al trattato di Osimo (1975 – che sanciva i confini tra l’Italia e la Jugoslavia).

Essa aveva assunto come simboli il melone e l’alabarda, in quanto simboli di Trieste, infatti sul Colle di S. Giusto c’è una colonna che dal 1844 ha in cima un melone sormontato da un’alabarda. Tali simboli sono però più antichi.

Il melone ha 13 spicchi, uno per ogni Casada della nobiltà medievale triestina. L’alabarda, secondo un’antica tradizione, cadde dal cielo su Trieste il giorno del martirio di S. Sergio, copatrono di Trieste. Egli fu martirizzato in Siria, in quanto cristiano, ed era ufficiale dell’esercito romano.

Ci sono numerose varietà di melone ad es:

come frutto:

 il retato di media grandezza con polpa bianca o giallo verde.

d’inverno con buccia  liscia, gusto tra la pera e il limone, tipico piatto natalizio siciliano.

come ortaggio: (raccolto prima della maturazione)

serpente, da usare crudo come i cetrioli.

amaro, utilizzato come pianta medicinale perchè ricco di vitamine A/C/E.

E’ un ottimo frutto, rinfrescante e gustoso, contiene molta vitamina A ed E e potassio e fosforo.

Idrata il corpo ed elimina le tossine per cui fa molto bene anche alla pelle, è un antiossidante naturale, regola la pressione, l’intestino e il sistema nervoso.
E’ ipocalorico (33 calorie per 100 gr) ed è protagonista di diete che permettono di sgonfiare pancia e addome.

Quindi si può utilizzare in molti modi, crudo in insalata, così com’è a fette, in varie preparazioni, frullato o cotto in confetture.

Questa è una ricetta fresca, adatta anche a Caronte, Minosse e che il caldo se li porti via…..

Ingredienti: (per quattro persone)

  • due meloni
  • 100 gr di lattughino
  • 2 cipolle
  • 180 gr di parmigiano
  • Olio, aceto balsamico, sale pepe

Preparare quattro piatti che ricoprirete con il lattughino, la cipolla tagliata ad anelli sottili, emulsionare  olio, aceto , sale e pepe, spargere in piccole dosi sull’insalata e la cipolla per lucidarle e condirle.

Tagliare il melone, pulito e senza semi, in tanti quadrettini. Appoggiarlo sui piatti e cospargere con parmigiano grattugiato.

Prima di servire conservarlo in frigorifero, fresco è migliore. E’ adatto come antipasto oppure come contorno.